Finalmente dopo un colpevole ritardo mostriamo orgogliosamente il video della premiazione e della lettura del raccconto "Insediamenti amorosi" scritto dalla nostra docente Elisabetta Spanu che, anche se in pensione, è sempre vicina a noi e alla nostra scuola. Il racconto ha partecipato al premio letterario Alfredo Rampi ed. 2021" Più in là - Oltre la resa" bandito in occasione del 40° anniversario della nascita della Associazione Centro Alfredo Rampi ONLUS, e classificandosi al 1° posto nella sezione adulti 12-99 anni. Il testo è rielaborazione e narrazione di episodi accaduti a scuola di cui siamo stati partecipi con entusiamo e trepidazione e che l'autrice ha vividamente rappresentato nel testo.
Il racconto è inserito nell'Antologia "Più in là" Premio Alfredo Rampi - Mauro Pagliai Editore che raccoglie tutte le opere vincitrici del concorso.
La professoressa
viaggiava a ritmo sostenuto per arrivare a destinazione ad un orario
ragionevole. Cambiava meccanicamente le marce e ascoltava musica un
po’ datata, ma il suo pensiero tornava e ritornava a quell’ultimo
anno scolastico. Dopo quarant’ anni passati dietro una cattedra,
presumeva di capire i suoi alunni con un solo sguardo, di prevederne
ogni reazione e ogni stato d’animo; ne sfruttava la curiosità
innata e ne approfittava per introdurre le sue lezioni di filosofia. Da subito aveva capito
che l’unico modo di coinvolgerli era parlare d’amore: gli
adolescenti andavano pazzi per quell’argomento. In virtù di questo
si era inventata lo stratagemma degli stati amorosi, sperando, se non
proprio di proteggerli dalle avversità future, almeno di abituare
quei ragazzi e quelle ragazze a convivere con il concetto di amore
variegato, in movimento. Spiegava - infervorata di
amore fluviale in cui tutto scorre e niente è più come prima – il
panta rei in Eraclito; parlava di amore ferroviario in cui si doveva
scendere e cambiare stazione, e introduceva il Seicento; discettava
di amore marino, i cui flutti si agitavano in superficie e che le
serviva come pretesto didattico per esporre il “carattere” del
Settecento. Insomma, una casistica di amori dinamici che, nelle sue
intenzioni, avrebbe dovuto spingere gli alunni a riflettere e a
raccontarsi. Il problema era quando si
arrivava all’ amore romantico e lei doveva spiegare, senza pietà,
che quello era un costrutto culturale ottocentesco, e che l’amore
unico, eterno e assoluto era solo una pia illusione. Le sue
affermazioni suonavano terribili, vedeva sempre lo sgomento e la
delusione dipingersi sul viso dei suoi studenti-cuccioli. Le facevano
una profonda tenerezza quando coglieva la loro speranza segreta che
lei si stesse sbagliando, di poter continuare a trastullarsi con
eternità e assolutismo. Altro che costrutto!
Così era andata avanti,
per quarant’ anni, con la presunzione di saperla lunga.
Certo, si era dovuta
adattare e riadattare. Era entrata in classe con una penna Bic e si
era ritrovata con un registro elettronico e un tablet in mano a
combattere con i cellulari: le nuove maledizioni amorose. I suoi
alunni non si raccontavano più, messaggiavano su uno schermo,
sbiancavano di colpo e chiedevano, in lacrime, di uscire,
dissimulando goffamente l’arida fine di un amore in diretta
schermo. E lei, che li prendeva affettuosamente un po’ in giro,
aveva capito che era una battaglia persa, che i ragazzi non avrebbero
mai fatto a meno di quel gingillo, neanche sotto minaccia di tortura
didattica. Lo avrebbero sempre tenuto tra le mani, cercando di
nasconderlo e di imbrogliarla, o avrebbero sbirciato nella tasca
dello zaino per leggere l’ultimo messaggio arrivato. Nessun
regolamento li avrebbe fermati.
Così era dunque stato,
prevedibile come il sorgere del sole... e iniziava a spiegare Hume.
Sino a Michele, il suo
alunno più bislacco, problematico, uscito a metà da un manuale di
pedagogia inclusiva e dal libro Cuore. Ci aveva messo un anno per
vedere gli occhi di Michi, che portava la visiera del berretto calata
sino al naso. Solo al secondo anno si era tolto il berretto. Al terzo
aveva cominciato vagamente a fidarsi di lei e a mostrarle i suoi
disegni. Al quarto, finalmente, aveva iniziato a scendere in giardino
con la collega di sostegno e a innaffiare le rose bianche. Sembrava
sereno, ma proprio nel giardino della scuola si era scatenato il
temporale ormonale della sua difficile età, e Michele si era
innamorato di Viola, alunna di quinta liceo, gentile fino al midollo
ma attenta a non regalare a nessuno vaghe illusioni. Michele, pur
consapevole che la fanciulla sarebbe sparita presto dalla sua vita,
era pazzo di lei. Arrossiva quando pronunciava il suo nome, le
regalava rose bianche e le scriveva poesie. Il tutto,
contenuto nei termini di una relazione cavalleresca da amor cortese
che lasciava attonito il corpo docente. Come previsto, Viola si
era maturata, gli aveva affettuosamente regalato una foto scattata
alla festa di fine anno ed era partita per la sua strada. Michele era quindi
arrivato in quinta con la foto stropicciata in tasca e con un’unica
richiesta: sedersi al posto che aveva occupato Viola l’anno prima.
Era stato accontentato e quella sedia era diventata un lavoro di
intaglio, con nomi e fiori incisi sul legno. Del resto, Michele si
era sempre espresso attraverso i disegni. Tra un nome inciso e un
fiore reciso, era arrivato anche lui all’Esame di Stato e, a quel
punto, la professoressa e le sue colleghe avevano deciso di fargli un
regalo. Era stato un percorso faticosissimo, per cinque lunghi anni,
ma Michi era un lampante raro caso di successo scolastico, e le
docenti leggevano gratitudine nei suoi occhi. Gratitudine a cui non
erano abituate. Avevano coinvolto la
signora Tina, una delle bidelle. Tina era una figura anacronistica,
da anni Sessanta, col suo bicchiere di acqua e zucchero usato come
panacea per tutti i mali. Aveva preso a cuore il caso di Michele.
Toccava a lei domandargli cosa desiderasse, mentre loro, le
professoresse, insediatesi in sala docenti, trafficavano con
scartoffie in attesa di sapere che cellulare sognasse Michele, visto
che non aveva mai potuto averne uno.
La signora Tina era
tornata dalla missione con gli occhi lucidi, stupefatta. Un desiderio
ce l’aveva, Michele, ma non era un gadget tecnologico: era la
sedia! Il ragazzo voleva continuare a sedersi sulla sedia di Viola! Come aveva potuto essere
così cieca? Si erano imprevedibilmente sbagliate tutte e proprio
lei, la professoressa di filosofia, quella del dubbio metodico, non
era riuscita ad andare oltre, e aveva dato tutto per scontato. Era
stata miope ed ora si trovava di fronte ad un vero dilemma morale,
non ad una semplice colletta per un maledetto cellulare. Mai e poi
mai sarebbero state autorizzate a regalare una sedia dello Stato ad
un alunno. Era burocraticamente impossibile, e neanche potevano
sostituirla, personalizzata com’era da tutte quelle incisioni. E
quindi?
Semplice: l’avrebbero
rubata! Sarebbero andate oltre.
Avevano architettato il
furto con precisione matematica e, durante la festa di fine anno,
approfittando della confusione generale e con la complicità del
paninaro della scuola, l’avevano caricata sul furgone delle
merende. Era poi toccato alla
docente di filosofia portarla in paese, a casa di Michele,
infiocchettata di rosso. Michele non si aspettava
quel dono. L’aveva guardata commosso e le aveva detto: “Grazie
professoressa! A volte l’amore deve aspettare seduto”.
Lei se n’era andata fra
le lacrime.
Lei, che pensava di
sapere già tutto, aveva imparato dal suo alunno che si poteva sempre
andare più in là e che, all’occorrenza, una rispettabile docente
poteva perfino diventare una ladra di sedie. Arrivò a destinazione,
aprì il bagagliaio e tirò fuori tutto l’armamentario. Si trascinò
sino alla riva, aprì la sua seggiola e lanciò la canna da pesca.
Finalmente poteva sedersi
e aspettare, in pace e amore con il mondo, pronta per andare in
pensione.